SAN SEVERINO LUCANO [.com]

La bottega del calzolaio

Sono la figlia di un calzolaio, uno degli ultimi calzolai di tutto il territorio di San Severino Lucano.
La bottega di mio padre si trovava al piano inferiore di casa mia, a Mezzana.
Di fronte alla porta, sempre aperta, c’era il banchetto con sopra ogni sorta di utensili da lavoro: tenaglie, coltelli, pinze e lesine con manico. Sotto il banchetto, nelle stagioni fredde, il braciere era usato come unico sistema di riscaldamento. Dietro la postazione di lavoro, su un basso scaffale, erano riposti barattoli con chiodi di ogni misura, colla, pece, spaghi e la sedia rivestita in pelle. Al lato sinistro, una grande scatola di legno conteneva qualche ritaglio di pellame e di gomma, dei martelli e il piede di acciaio su cui s’ infilava la scarpa da riparare. A destra del banchetto una porta smaltata di verde dava su un piccolo stanzino dove ogni genere di pellame era arrotolato e legato con lo spago mentre una mensola in alto sfoggiava gli scarponi artigianali finiti e pronti per essere venduti. La vecchia macchina Singer, per calzolai, era posta nel punto più luminoso della stanza. Su quattro mensole erano state ordinate per numero le forme di legno: da quelle per i bambini, piccolissime, fino a quelle grandissime per adulti.
Ricordo mio padre mentre costruiva i suoi piccoli gioielli. Misurava il piede del cliente con un centimetro da sarto e ne appuntava le misure su un quaderno. Il giorno seguente iniziava a disegnare su un cartoncino rigido, pezzo per pezzo la sua scarpa, poi ritagliava e ricalcava i modellini sulla pelle. Prendeva la forma di legno adatta e si apprestava a costruirci sopra lo scarpone.
Gli scarponi erano destinati soprattutto a pastori e muratori e quindi dovevano essere comodi e robusti. Ai pastori, per renderli impermeabili all’acqua, consigliava di cospargerli di grasso di coniglio ( u siegu) .
Mio padre a 12 anni lavorò come apprendista in una bottega di un calzolaio di Mezzana e qui imparò il mestiere. Negli anni cinquanta il lavoro di calzolaio era molto richiesto poiché le scarpe artigianali venivano indossate da uomini, donne e bambini. Con l’arrivo dei prodotti delle industrie mio padre dovette specializzarsi negli scarponi da lavoro.
Negli anni “80, il lavoro di calzolaio iniziò a diminuire notevolmente mentre quello di ciabattino, che mio padre amava davvero poco, aumentò. Da maestro della pelle qual era, odiava lavorare sulle moderne scarpe fatte di tomaie di plastica, di tessuto o finta pelle. L’unica bambina che in quegli anni, calzava gli zoccoletti artigianali, (colorati e bellissimi, a dire il vero) ero io. Si divertiva inoltre a realizzare per sé stesso e la famiglia, cinture, borse e portafogli.
Per terra, in fila, appoggiate al muro, vi erano le scarpe da riparare mentre quelle già riparate stavano sul davanzale della finestra.
L’odore di pelli, colle e tinture confluiva in un unico odore, dolce e piacevole che caratterizzava la bottega.
La bottega di mio padre era molto rumorosa. Ricordo un via vai di gente e quando non c’era nessuno, c’era lui che canticchiava a suon di martello!
Era un punto d’incontro, di ritrovo. In bottega venivano pastori, muratori,casalinghe, professionisti, studenti, passanti e tutti si fermavano a vederlo operare con quello strano stupore e curiosità negli occhi. Le donne fino agli anni sessanta si recavano in bottega a due o a tre: era sconveniente andare da sole dal calzolaio scapolo.
I bambini lo osservavano mentre bucava la pelle con la “sugghia”, la lesina, per poi inserirci, ad incrocio, le due punte dello spago costituite da setole di cinghiale o maiale precedentemente indurite con la pece. I bambini rimanevano incantati da quella operazione fatta da mani esperte, avvolte da strani guanti di pelle che ne proteggevano il palmo e si divertivano a fissare chiodi sul banchetto. I ragazzi sostavano in bottega conversando simpaticamente per ore con papà. Gli anziani invece venivano di proposito nella bottega per intraprendere lunghi e interessanti dibattiti. Molti erano vecchi pastori, boscaioli a riposo e reduci di guerra. Si sedevano sulle due sedie poste ai due lati del banchetto, a volte erano così tanti che affollavano la stanza. I reduci di guerra erano quelli che parlavano di più e con più passione e trasporto e spesso con un velo di pianto negli occhi: “Eravamo a piedi sulla neve, la barba lunga e ghiacciata, i contadini russi ci trattavano bene … una volta vidi qualcosa di orribile, una catasta di scheletri umani che scambiai per legna “. Diceva uno.
L’altro:” i colpi arrivavano come grandine, c’era un morto per terra, lo caricai sulle spalle per parare i colpi ,non sapendo che fosse un ufficiale e per giunta ancora vivo; giungemmo salvi entrambi e per questo mi diedero una medaglia!.”
Controbatteva quel signore coi pantaloni alla zuava e la coppola siciliana.” Ma che guerra ci hanno mandato a fare, pieni di pidocchi, scalzi e affamati … io mi lamentai col tenente ma lui disse -soldato abbi amor di patria- io risposi:- signor tenente ma quale patria, cos’è questa patria se ci ha ridotto così!-.
I pastori invece parlavano di storie di greggi, montagne e lupi. Vestivano con pantalone di velluto nero, abbinato a un gilet della stessa stoffa e colore, dal cui taschino pendeva la catenella dell’orologio a cipolla. Sotto il gilet, spiccava una camicia bianchissima, dal collo alla coreana. Erano molto eleganti a vedersi, soprattutto con il cappello nero in testa.
All’ora di pranzo mia madre chiamava papà e la bottega si chiudeva per poi riaprire nel primo pomeriggio.
Era questa la bottega del calzolaio. Un luogo in cui l’abilità delle mani e la fantasia dell’artigiano affascinavano chiunque; un luogo di socialità, di racconto, di ilarità e di accoglienza.
Le vecchie botteghe dei calzolai rappresentano ormai solo un ricordo di un mondo e di un’epoca, inghiottita dall’economia e dalla società moderna.

Carmela De Marco

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