SAN SEVERINO LUCANO [.com]

I ragazzi del muretto

                                                           nebbia 2

C’era un luogo speciale a Mezzana, un muretto, in realtà le sponde di un piccolo fossato ai margini della strada provinciale. Il muretto è stato per due decenni il simbolo della gioventù di Mezzana. Era qui che il pomeriggio e la sera gruppi di giovani vivevano la loro spensieratezza ed allegria, propria di quegli anni in cui il tempo è dilatato fino a sembrare quasi eterno, in quegli anni in cui ci si sente al centro del mondo, invincibili e unici. Per due generazioni il muretto è stato un punto di ritrovo importante e a pensarci bene era bello vedere quei ragazzi seduti su quelle sponde, incuranti delle automobili che vi passavano in mezzo. Le mamme raccomandavano alle proprie figlie di non andare oltre “lo specchietto”. Lo specchietto stradale posto sulla provinciale delimitava quasi il confine tra il lecito e l’illecito, tra la sicura vecchia morale e la nuova, incerta. Non pochi problemi ebbero le ragazze negli anni Ottanta che s’incamminavano oltre lo “specchietto”. Ma cosa c’era al di là dello specchietto? Il muretto come ritrovo e la possibilità di vivere amicizie e amori lontano dagli occhi indiscreti degli adulti. Io ero una bambina negli anni Ottanta, sentivo le critiche rivolte alle “ragazze del muretto” ma le ammiravo, percepivo la loro volontà di cambiare qualcosa di stantio.

Negli anni Novanta io e i miei amici diventammo i nuovi “ragazzi del muretto”. Oltrepassavamo “lo specchietto” ormai liberamente, quasi come se una barriera fosse lì, in bilico, in attesa di cadere del tutto. Si stava passando dalla prima alla seconda Repubblica mentre qui si era in procinto di abbandonare definitivamente quella parte di cultura rurale statica che continuava in qualche modo a condizionare, a volte negativamente tante vite, per affacciarci con un atteggiamento inclusivo ad una cultura pronta a guardare al resto del Paese.  Iniziammo a percepire questo cambiamento già con il telefono cellulare. Da adolescenti telefonavano dalla cabina pubblica del bar per sfuggire al controllo dei genitori. Il telefonino invece ci permetteva di comunicare salvaguardando la nostra privacy, anche se per i primi anni, in assenza di campo, ricordo mi toccava telefonare in bagno, tra il bidet e il lavandino!.Fu poi il 1993 a dare una svolta decisiva all’aspetto socio-culturale della mia comunità, l’anno cioè dell’istituzione del Parco Nazionale del Pollino. Di Parco Nazionale iniziammo a sentirne parlare da bambini, negli anni Ottanta. Nella bottega di mio padre se ne faceva un gran chiacchiericcio ed io fiutavo l’ansia per un pericolo imminente che ci avrebbe travolto. Da lì a poco, a sentire il dire di quegli adulti e anziani, sarebbe successo il peggio: saremmo morti di freddo perché il Parco ci avrebbe vietato di tagliare la legna, ai pastori sarebbe stato vietato di pascolare poiché i terreni sarebbero stati tutti recintati, nessuno avrebbe più potuto praticare la caccia, elicotteri pilotati da ambientalisti poi, avrebbero lanciato dal cielo  lupi e serpenti. Succedeva a volte che si avvistasse qualche serpente in più rispetto all’anno precedente, la frase conseguente era: “ assi ambientalisti nani arruinati’,  gli ambientalisti ci hanno rovinato!. Io ero solo una bambina e non riuscivo ovviamente a sgomitolare preoccupazioni che mi facevano solo tanta paura ma intuivo che quelle persone, pastori, agricoltori, cacciatori, boscaioli, si sentivano minacciati da qualcosa di estraneo, di incomprensibile, in conflitto con i loro bisogni e il loro modo di vivere il luogo in cui erano sempre vissuti ; la montagna fino ad allora era  servita per l’approvvigionamento della legna, per pascolare o per cacciare, era quindi inconcepibile una finalità diversa da quella che essi conoscevano da sempre. Alle scuole elementari un giorno si organizzò una proiezione di diapositive tenuta da un giovane pioniere della tutela del Pollino, Giorgio Braschi. Quel giorno la paura per i discorsi nella bottega di papà svanirono completamente. Scoprii che gli ambientalisti non erano brutti e cattivi e non pilotavano nessun elicottero!  Giorgio Braschi ci trasmise la bellezza della nostra montagna e ci spiegò che un Parco Nazionale non era un posto recintato e vietato a tutti ma un luogo semplicemente da proteggere e amare. Tornai a casa felice di poter raccontare a papà e a nonno quanto avevo ascoltato però, non riuscii a convincerli! Piano la gente si tranquillizzò e lo spauracchio del Parco pericoloso si offuscò ma arrivò lo scetticismo nei confronti del turismo. “Eh assu turismo ni fa mangià!” si diceva con disappunto. Era sempre stata una comunità a vocazione agro-pastorale, molti non avevano mai visitato un luogo turistico per cui di difficile comprensione risultava per gli adulti e gli anziani questo strano e sconosciuto fenomeno.

La seconda metà degli anni Novanta fu un periodo di grande fermento sociale ed economico, piano iniziarono a nascere strutture ricettive e ad arrivare numerosi turisti. La gente nei confronti del turista si poneva, forse ereditando la tradizione dell’accoglienza dai contadini montanari, con un innato atteggiamento cordiale, disponibile e allo stesso tempo di sana diffidenza. Solo negli anni Ottanta, quando giovani tedeschi Punk campeggiarono per diversi giorni a Mezzana, la gente si relazionò forse per la prima volta con il turismo. Di quella simpatica visita che io ricordo appena, se ne parlò per decenni!. Ci si chiedeva ancora, dopo anni, perché dei giovani tedeschi avessero scelto un posto dove non c’era nulla, né un monumento, né una città, “suli marranghe e timpe”! Ci si meravigliava, divertiti, di averli visti di giorno, con quelle loro strane pettinature camminare scalzi e di notte ritrovarli nelle cantine assieme alle ragazze che tracannavano boccali di birra “peggiu i l’uommini”, peggio degli uomini!.

Noi appena ventenni, eravamo troppo concentrati sulla nostra giovinezza per guardare bene in faccia a quella sottile rivoluzione socio-culturale, respiravamo però un’atmosfera impregnata di speranza per il nostro piccolo villaggio che troppe volte era stato sventrato dagli stenti e dall’emigrazione. Fu proprio in questi anni che abbandonammo il nostro amato muretto, quando cioè nuovi bar, finalmente accessibili anche alle ragazze, divennero i ritrovi per i giovani e di “ragazzi del muretto”, ragazzi  apparentemente indifferenti all’evolversi delle cose, a cui bastava solo il ritrovarsi per vivere con gioia la loro giovinezza, da allora non ce ne furono più.                                                                                                                                          Carmela De Marco

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