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Di Admin (del 23/01/2021 @ 12:09:34, in news, linkato 223 volte)
“L’uomo custode della natura” di Ferrante De Benedictis Comunitarismo e conservazionismo per un ritorno alle origini dell’ambientalismo De-Benedictis_COVER “Così per gli Aborigeni le montagne, gli alberi, i fiu­mi, i deserti e gli animali diventano spiriti che parlano all’uomo. In un rapporto via via sempre più spirituale l’uomo entra sempre più in simbiosi con la natura, con la sua anima, e questa diventa parte della comunità. Non è dunque pensabile salvare l’ambiente senza salvare la comunità che lo abita, e qualora qualcuno si illudesse di poterci riuscire, tale tentativo sarebbe destinato miseramente a naufragare nel mare delle pro­poste demagogiche di un moderno e politicamente cor­retto ambientalismo integralista”. (Ferrante De Benedictis) E’ uscito per i tipi della casa editrice Giubilei Regnani il libro “L’uomo custode della natura” di Ferrante De Benedictis, ingegnere di Francavilla in Sinni che ho avuto occasione di conoscere nella comune battaglia che abbiamo condotto contro il progetto di una centrale idroelettrica sul Fiume Frido. Ferrante mi aveva parlato dell’idea di questo libro e gli avevo suggerito alcuni testi per la parte della bibliografia attinente ai temi della conservazione della natura. Si tratta di un libro “denso” in quanto tratta dei temi ambientali nella loro globalità, dalle questioni della conservazione della natura ai temi energetici. In questa recensione mi concentrerò sui capitoli del libro dedicati ai temi della conservazione della natura. L’autore mostra un approccio “critico”, aperto alla ricerca e alla riflessione, a sollevare domande più che a dare risposte certe o ideologiche. De Benedictis non tralascia di andare alle radici della questione ambientale, affrontandola anche da un punto di vista filosofico e antropologico. La questione da cui partire è la contrapposizione uomo-natura, sorta nella società occidentale; una contrapposizione problematica, visto che l’uomo è parte della natura. Una contrapposizione che prima di tutto richiama il progressivo allontanamento della società umana da un a rapporto sano ed equilibrato con gli altri esseri viventi e con l’ambiente naturale in generale: una contrapposizione che chiama cioè in causa la civiltà occidentale, la sua identità e le prospettive future di quella che i filosofi contemporanei più lucidi hanno individuato come l’Era della Tecnica. Come scrive Ferrante: “Prima ancora di offrire risposta a queste domande, occorrerebbe chiedersi se è giusto o meno parlare di uomo e di natura come entità distinte. L’uomo non è forse parte integrante della natura e dell’ambiente circostante?”[1] La risposta, che un po’ è anche il tema centrale del libro, non sta in una certa misantropia ambientalista, né nel prometeico senso di superiorità dell’uomo come il sovrano assoluto del mondo, ma nel ritrovamento di un rinnovato rapporto armonico ed equilibrato con la natura, alla base del quale sta il concetto di comunità, allargato a tutti gli esseri viventi. “…ma non si può né amare né proteggere se non si ha in animo un’idea di comunità e di etica, etica della terra appunto che allarga i confi­ni della comunità di persone al suolo, alle acque, agli animali di cui l’uomo ne è custode e non proprietario. Occorre estendere il concetto di etica al rappor­to tra uomo e natura, al rapporto con la terra, e forse questo rappresenterà un ulteriore passaggio evolutivo, oltre che una necessità ecologica.” [2] E’ evidente qui la lezione di Aldo Leopold, conservazionista americano, uno dei padri del movimento ambientalista al quale l’autore attinge a piene mani nella sua concezione dell’uomo-custode, che poi è anche il titolo del libro. Secondo Aldo Leopold infatti “é solo quando vediamo la terracome una comunità a cui appartenere, che iniziamo a trattarla con amore e rispetto”. Ma anche l’ecologia sociale di Murray Booking viene chiamata in causa, contro una concezione estremistica dell’ambientalismo, secondo cui i problemi ambientali non sono sociali ma derivino dalla stessa presenza dell’umanità (i responsabili sono cioè gli uomini in sé, indipendentemente dai sistemi economici e sociali e dai rapporti di potere e di produzione che si instaurano nella società): “Al pari di Leopold, egli [Murray Booking] considerava la questione naturalistica come un pro­blema sociale che doveva essere capace di valorizzare la figura dell’uomo come figura centrale nella tutela e nella conservazione del proprio ambiente naturale.” [3] Esempi di un rapporto equilibrato con la natura, come suggerisce l’autore, sono in primis i popoli tribali che nel corso della storia hanno saputo vivere delle risorse naturali senza stravolgere l’ambiente, modificando così in maniera irrimediabile gli equilibri sistemici. “Ma vi è anche una motivazione di carattere filoso­fico e ambientale nel voler proteggere e salvaguardare le comunità locali. Queste rappresentano degli stra­ordinari modelli di autoregolazione nel rapporto tra uomo e natura, modelli che sono sopravvissuti a secoli di storia del nostro pianeta attraverso un sano ed equi­librato processo di crescita sostenibile. Alcuni esempi: gli Indiani del Nord America, gli Himba, i Masai in Africa, gli Aborigeni in Australia, tutte comunità che ho avuto la fortuna di incontrare nei miei ultimi viaggi e di cui parleremo.”[4] Il concetto di comunità locale acquista una valenza decisiva nei progetti di conservazione naturale. È un po’ anche l’idea che sostiene la linea politica di un’associazione come Survival International, che propone da sempre di coinvolgere le comunità indigene nella gestione delle aree sottoposte a tutela ambientale. Il problema diventa come rendere praticabile quest’equilibrio in società ipertecnologiche lontane anni luce dai modi di produzione tipici delle comunità primitive. Popoli tribali a parte, il discorso vale anche per le aree naturali dell’urbanizzato mondo occidentale, dove le comunità rurali possono svolgere un ruolo efficace nel tutelare i propri territori. Imprescindibile in proposito è tutelare i diritti delle comunità senza vincoli autoritari, secondo un principio democratico da sempre sostenuto da associazioni come l’AIW. È ovvio che la concezione della comunità locale non può essere “idealistica”, non tutti quelli che vivono in aree rurali sono paladini dell’ambiente, ma all’interno di queste comunità possono nascere delle avanguardie coscienti più sensibili alle questioni della conservazione e tutela ambientale. E’ a queste “risorse umane” che bisogna rivolgersi, a quei “custodi” che spesso in maniera autonoma e indipendente lottano contro progetti speculativi che minacciano l’integrità naturalistica della propria terra, anche quando tali territori dovrebbero essere sottoposti ai vincoli di un’aera protetta (il caso della centrale idroelettrica del Frido torna in questo caso di nuovo esemplare). Altrimenti il rischio che si profila è la supremazia del cosiddetto “ambientalismo da salotto”, un ambientalismo incentrato magari più sui temi energetici e della salute pubblica e poco sensibile alla conservazione delle aree naturali, viste tutt’al più come aree ricreative, che corrono il rischio di essere addomesticate e banalizzate dalle esigenze del turismo di massa, come rileva anche l’autore. La natura però la si protegge se la si conosce, ed è per questo che l’azione di tutela non può essere scollegata dal riferimento alle comunità. “La natura non la si può salvare se prima non la si co­nosce, e come conoscerla se non attraverso un rapporto armonioso che parte dall’osservazione attenta dei suoi fenomeni, osservazione che non è per forza un’analisi scientifica riservata ai soli professionisti – biologi, na­turalisti, ornitologi o fisici – ma che dovrebbe riguar­dare tutti.”[5] Ecco allora che non si può prescindere da quelle avanguardie del mondo rurale più vicine alle aree con un valore wilderness da proteggere, sfruttando il legame che ancora è vivo con la propria terra, soprattutto in aree come la Basiicata, dove le sue tradizioni, usi e costumi instaurano spesso un rapporto diretto con gli ambienti naturali, la fauna e la flora. De Benedictis non esclude – come oggi fanno la maggior parte delle associazioni ambientaliste – il mondo della caccia nella difesa degli ultimi spazi naturali selvaggi. Non ci può essere caccia senza natura selvaggia, ma la caccia però “…deve mettersi a servizio della tute­la e della salvaguardia, ecco che le regole devono es­sere non solo rispettate ma soprattutto interiorizzate, occorre che il cacciatore acquisisca sempre più una profonda cultura ed etica venatoria che lo conduca re­sponsabilmente a essere interlocutore credibile delle sfide ambientali del futuro.” [6] L’autore non fa mistero della sua appartenenza politico-ideologica e interroga la stessa identità dei conservatori di oggi, ricollegandola ai temi del conservazionismo ambientale. Proteggere la natura dovrebbe essere cioè un obiettivo anche dei conservatori, se conservare significa lasciare intatti paesaggi e ambienti, senza stravolgerli nel nome dello sviluppo economico e del libero mercato. Conservare la natura, aggiunge chi scrive, dovrebbe andare al di là dell’appartenenza ideologica ed essere un obiettivo da perseguire da parte del movimento ambientalista nel suo insieme, cercando di sensibilizzare tutto il mondo politico, spesso schierato, a destra e a sinistra, dalla parte di chi vede la natura solo come oggetto, come “fondo sfruttabile e manipolabile”, per dirla con Heidegger (un filosofo le cui considerazioni suonano più che mai attuali nel mondo contemporaneo). “È opportuno precisare che il termine conservare, caro ai conservatori, non deve essere declinato come volontà di restaurare, ma come desiderio di custodire valori, opere e bellezza e di tramandarli alle generazio­ni che seguiranno (…)In tutto questo, quale sarà il ruolo dei conservatori? Il conservatore e il rivoluzionario-conservatore avran­no il compito e la responsabilità di farsi portavoce di un nuovo ambientalismo, un ambientalismo che trae le proprie radici dalle origini stesse del suo pensiero e del suo agire, che scevro dal colpevolizzare l’uomo e le sue conquiste tecniche in quanto tali, vedrà pro­prio nell’uomo la chiave per proteggere e custodire at­traverso il giusto apporto della scienza e della tecnica.”[7] Ma a quale filosofia e concetto di conservazione riferirsi? Bisogna andare all’ambientalismo delle origini, rappresentato dalla Filosofia Wilderness, nata negli USA da visionari come Thoreau, John Muir e Aldo Leopold, solo per citarne alcuni, che portò alla nascita delle prime aree protette in un mondo avviato verso la progressiva espansione del capitalismo industriale, avido di risorse naturali. Una filosofia che in Italia è portata avanti dall’Associazione Italiana per la Wilderness, fondata da un altro “visionario” della wilderness, Franco Zunino, attualmente Segretario Generale dell’AIW. Un ritorno alle origini appunto, che richiama la necessità di avere dei solidi principi e una vera e propria filosofia ambientale (nonché un metodo di conservazione), al fine di individuare quali sono le priorità del movimento conservazionista-ecologista e non perdere la bussola trasformando l’ambientalismo in pura ecologia politica o economia ecologica, al servizio di un’ideologia tecnico-burocratica. Custodire le ultime aree selvagge del pianeta non significa solo tramandare la bellezza della natura alle generazioni future, non richiama solo gli aspetti estetici e ricreativi, ma la stessa tutela della biodiversità, essendo le aree selvagge quelle più importanti per la sopravvivenza di flora e fauna selvatica. Come afferma De Benedictis infatti, ricollegandosi alle teorie di Aldo Leopold: “la wilderness avrebbe un altro importante compito di natura scientifica, essa rappresenterebbe il più na­turale e veritiero modello di paragone per valutare la bontà di un ecosistema e il livello e la salubrità della sua biodiversità, così per gli scienziati rappresentereb­be la “norma” di riferimento per lo studio e la cura dei territori adiacenti, potendo così sviluppare un concet­to di “salute della terra” ossia la capacità che essa ha di rigenerarsi, considerando che la tutela dell’ambiente altro non è che la capacità di comprendere e preservare questa capacità, oltre ad acquisire un’etica e una vera coscienza ecologica.”[8] Una precisazione da fare, per chi pensa che wilderness significhi natura selvaggia senza l’uomo: va detto che nemmeno nel WIlderness Act americano (legge di tutela delle aree wilderness americane) è mai pronunciata la parola “incontaminato”, nel senso di natura non frequentata dall’uomo. Anche nelle aree più remote del pianeta l’uomo ha sempre vissuto nella widerness (tanto che era per essi inconcepibile una contrapposizione uomo-natura), basti pensare ai popoli tribali dell’Amazzonia, agli esquimesi o agli Indiani d’America, o ancora agli aborigeni australiani, tutti popoli per i quali la natura selvaggia si caricava di significati culturali e religiosi (degni di nota sono i luoghi sacri come le Black Hills o la Monument Valley, solo per fare un esempio). E’ una considerazione che vale, se vogliamo, anche per le nostre comunità montanare dell’Appennino o delle Alpi, con pastori, cacciatori o carboniai, che frequentavano l’alta montagna fin da tempi remoti. Come ribadisce anche l’autore, oltre ai valori scientifici la natura è fonte di riferimenti culturali per l’uomo, si tutelano gli ambienti naturali anche semplicemente per la loro bellezza, il primo stato d’animo del visitatore immerso in un ambiente selvaggio. Solo dopo subentrano altre considerazioni, di tipo più scientifico o razionale. Nel suo significato originario infatti, wilderness è sia una condizione geografica che uno stato d’animo. Come scrivevo in un articolo apparso sulla rivista Documenti Wilderness “la conoscenza della natura anche scientifica, è supportata dall’esperienza fisica nel mondo selvaggio, propria di chi vive la montagna e la natura; ma la natura suscita anche sentimenti di elevazione interiore che inducono a far emergere nella propria coscienza individuale quel concetto di valore in sé della natura, che si oppone frontalmente invece alla filosofia utilitarista che domina la società attuale (…) Tutto ciò non può che sconfinare in un atto politico: ovvero nell’associazionismo e nella battaglia per la conservazione degli ultimi spazi rimasti selvaggi. Ed ecco che dall’esperienza individuale della natura si ritorna alla società e alle problematiche che concernono il rapporto della civiltà umana con la natura selvaggia... proprio tramite il concetto di tutela e conservazione (che rimanda alla considerazione delle ‘generazioni future’).”[9] Purtroppo, anche nei parchi, aree che dovrebbero garantire la protezione integrale almeno delle aree naturali più selvagge, assistiamo da anni a progetti pseudo-ecologici che nulla hanno a che fare con la tutela e la gestione delle aree naturali o con la promozione di un turismo sostenibile; con il risvolto paradossale che debbano essere le associazioni ambientaliste e i cittadini ad impegnasi per scongiurare certe aggressioni al territorio. Si va dalla centrali a biomassa a quelle idroelettriche in zona 1, ai macroattrattori che promuovono un turismo di massa che svilisce gli ambienti più integri, a sentieri super attrezzati con traversine tossiche, panchine e cestini nello stile delle villette urbane, ponti tibetani, scivoli e chi più ne ha più ne metta. Progetti che non hanno nemmeno ritorno per le comunità locali ma che fanno di sicuro la fortuna di ditte e progettisti che si accaparrano gli appalti. L’esempio della centrale idroelettrica del Frido è quello più vistoso: un progetto che ha già devastato un tratto di fiume, in un habitat fluviale fra i più delicati e belli del Parco Nazionale del Pollino, autorizzato da Ente Parco, Regione e comuni e per fortuna bloccato da cittadini e associazioni per ben due volte. “È proprio in virtù di una sorta di immunità targa­ta rinnovabile che si è pensato di poter costruire una centrale avente una potenza nominale di 987 kW, che imporrebbe una serie di opere fisse quali la realizzazio­ne di una condotta di presa lunga 6,8 km per alimen­tare una vasca di carico di dimensioni in pianta di 15,7 m x 27,4 m e una profondità di 5 m per una capacità 130 di 1269 m3; e di una condotta forzata di diametro 900 mm e una lunghezza di 2591 m in grado di alimentare due turbine Pelton ospitate in un edificio in cemento armato di dimensioni pari a 14,9 m x 11 m e una altezza di 6,23 m, a completamento del tutto la costruzione di un canale di restituzione dalle dimensioni di 2 m x 2 m anch’esso in cemento armato. È immaginabile pensare che un’opera del genere non abbia alcun impatto su un fragilissimo ecosistema come quello di un torrente di montagna? In un’area di massima attenzione e tutela per le tante emergenze naturalistiche presenti, la nostra attenzione dovrebbe concentrarsi sulla tutela di aree di natura incontami­nata, evitando opere che potrebbero stravolgerla per sempre.” [10] Associazioni ambientaliste e cittadini come Ferrante De Benedictis si sono rivelati in questa vicenda dei veri e propri “custodi della natura” per la loro presa di posizione. Spetta a queste avanguardie rendere coscienti le comunità dei valori naturalistici del proprio territorio, affinché la tutela ambientale parta dal basso e renda le comunità locali protagoniste della conservazione del paesaggio e degli ambienti naturali. Saverio De Marco Delegato Basilicata AIW (Associazione Italiana per la Wilderness) Note: [1] L’uomo custode della natura – Ferrante De Benedictis 2020, p. 17 [2] Ibid., p. 23 [3] Ibid., p. 25 [4] Ibid., p. 30 [5] Ibid., p. 27 [6] Ibid., p. 78 [7] Ibid., pp. 35-40 [8] Ibid., p. 63 [9] Wilderness: la mia scoperta di un’idea, Saverio De Marco 2010 ( https://www.wilderness.it/sito/wilderness-la-mia-scoperta-di-unidea/ ) [10] L’uomo custode della natura, Ferrante De Benedictis 2020, pp. 129-130
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